Testo
della conferenza di don Roberto Spataro sdb, alla Libera Università di
Lingue e Comunicazione (IULM) di Milano, 12 maggio 2014.
***
Illustri professori e studenti, cari amici,
nella
relazione che sto per presentare, attenendomi al titolo che mi è stato
affidato, svilupperò tre punti. Anzitutto, definirò il concetto di
patrimonio immateriale e lo applicherò alla lingua latina; in secondo
luogo, mostrerò alcune caratteristiche del latino liturgico; infine,
presenterò la cosiddetta “Messa tridentina”, comunemente designata anche
come “Messa in latino”, che valorizza moltissimo il latino liturgico.
1)
Per definire il concetto di “patrimonio immateriale”, vorrei rifarmi ad
un’iniziativa promossa circa due anni e mezzo fa da una benemerita
istituzione culturale italiana, l’Accademia “Vivarium Novum”, che, con
il sostegno di altri prestigiosi partner europei, ha raccolto moltissime
adesioni perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite dichiari la lingua
latina e la lingua greca antica “patrimonio culturale immateriale
dell’umanità “. Nella petizione che è stata diffusa, era descritto, pur
se con altre parole, come “patrimonio immateriale dell’umanità” un
qualche bene spirituale intangibile capace di creare una sorta di
comunione diacronica tra gli uomini che ne usufruiscono. Come tutti le
ricchezze culturali, esprime sempre un’esperienza significativa
dell’avventura umana sulla terra che possa toccare l’anima dell’uomo in
quanto tale, senza esclusioni e senza barriere nel tempo e nello spazio.
Appartengono
a questa categoria lingue, non mai e/o non più parlate da nessun
popolo, che hanno svolto nella storia delle idee e della cultura un
ruolo fondamentale. Gli esempi sono numerosi: il sanscrito, soprattutto
in India, ha trasmesso dottrine e speculazioni filosofiche da epoche
remotissime fino ai nostri giorni; l’arabo classico e il persiano
medievale ci hanno consegnato le meditazioni dei mistici sufi e le
discussioni dei pensatori che riflettevano con profondità sui loro testi
sacri e sulle opere della filosofia greca; la lingua ebraica, di
recente riportata in vita con la nascita dello Stato d’Israele, ha per
quasi due millenni tramandato la sapienza religiosa di una comunità di
credenti dispersa nell’orbe. Queste ed altre lingue, e le civiltà che
esse esprimono, costituiscono un grande patrimonio, che va rispettato,
apprezzato, tutelato. Se disperso e trascurato, tutti diventano più
poveri culturalmente, il che equivale a dire, tutti diventano più poveri
di umanità.
È a tutti evidente che il concetto di “patrimonio immateriale”, così come descritto, si applichi alle lingue latina e greca.
Chi
potrà negare che anche e principalmente nelle civiltà greca e latina
sussistano le radici storiche e il tesoro inesauribile della memoria
comune dell’Europa?
Il
latino è patrimonio immortale dell’umanità perché è la lingua di autori
che definiamo “classici” in quanto, secondo una felice intuizione di
Italo Calvino, ogni volta che entriamo in dialogo con loro, scopriamo
sempre qualcosa di nuovo che si incide nella nostra anima .
Sono classici perciò Virgilio, con la sua dolorosa meditazione delle
umane vicende, Seneca che sosteneva che tutti gli uomini hanno la stessa
dignità, Agostino che, nella sua sofferta e pur serena autobiografia,
ha scoperto la psicologia del profondo. Non è necessario moltiplicare i
nomi dei “classici” latini ed il loro imperituro messaggio. Vorrei,
invece, ricordare che, dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente,
avvenuto nel V secolo in concomitanza con l’irruzione di nuovi popoli,
la lingua latina diventò immortale, mai più destinata a perire. A
partire dal V secolo comunità civili e politiche scelsero il latino per
le conversazioni quotidiane, per l’allacciamento di relazioni, per la
stesura degli atti burocratici, per la composizione di opere di
letteratura, per la celebrazione della preghiera. In tal modo i popoli
europei, dialogando tra loro con l’uso della medesima lingua, maturavano
un unico e medesimo spirito. Scrissero in latino i monaci eruditi che,
maestri alla corte palatina di Carlo Magno, coltivarono gli studi
umanistici ed avviarono un rinascimento delle lettere e delle arti. Tra
essi eccelle Alcuino. In latino composero le loro
summae
di teologia i pii dottori del Medioevo per mostrare il modo in cui gli
uomini, con argomentazioni razionali, possono comprendere i misteri
della fede cristiana. Ed il nostro pensiero va al più grande tra essi,
Tommaso d’Aquino. In latino Dante Alighieri, come altri suoi
contemporanei, trattò problemi di natura politica. In latino gli
umanisti dei secoli XV e XVI sostennero la grandezza e la dignità
dell’uomo, come Erasmo da Rotterdam, profeta della pace, o Thomas More
martire della giustizia. Usarono il latino gli autori, come Francesco de
Vittoria, il grande filosofo di Salamanca, che rivendicarono i diritti
inviolabili delle popolazioni indigene contrastando l’avidità dei
conquistadores.
In latino approfondirono temi di matematica studiosi illustri, quale
Giovanni Napier che nel XVI secolo scrisse un’opera intitolata “
Mirifici logarithmorum canonis descriptio” .
Quanti capolavori di natura letteraria, filosofica, teologica,
giuridica, scientifica, matematica, biologica sono stati composti in
questa lingua fino al secolo XIX! E persino nell’ambito politico, il
latino, era la lingua dei parlamenti, come quello croato e quello
ungherese fino al secolo XIX, o la lingua della corrispondenza di uomini
dotti, mercanti, esploratori, missionari: un enorme patrimonio, davvero
universale nel tempo e nello spazio.
2)
Negli ambiti in cui la lingua latina è stata usata eccelle senz’altro
la liturgia della Chiesa Cattolica che ha quasi spontaneamente scelto la
lingua di Roma per elevare la sua preghiera a Dio negli atti più
solenni, i sacramenti, soprattutto la Santa Messa, e l’Ufficio divino.
Tra le varie cause che hanno portato a questa felicissima simbiosi tra
la preghiera ufficiale della Chiesa e l’uso del latino, vorrei
ricordarne una: il latino è una lingua sacra. Gli argomenti che adduco
per sostenere questa tesi sono cinque.
a)
Anzitutto, le più remote testimonianze dell’uso letterario della
lingua, rinviano ad un contesto rituale, gli antichissimi “carmina”
perché le caratteristiche fonetiche del latino, con la sua alternanza di
sillabe lunghe e brevi, con la sua sonorità robusta, ma mai sgraziata,
di consonanti occlusive, ingentilita dalla frequenza di sibilanti e
liquide, lo rende una lingua poetica e, dunque, la sottrae alla
funzionalità della prosa, per immergerla nella sfera della bellezza, che
è il mondo di Dio.
b) Inoltre, il latino è una lingua “sacra”,
come ha notato Michael Lang sulla scorta delle osservazioni di Christine
Mohrmann, perché è immutabile .
Il latino, infatti, nelle sue strutture morfologico-sintattiche si è
fissato una volta per sempre, come ricordavamo, intorno al V secolo
d.C., conoscendo solo un graduale e fecondo arricchimento lessicale.
c)
La lingua sacra, tra l’altro, è disponibile a recepire prestiti da
altre lingue per esprimere realtà sacre, ed il latino liturgico si è
mostrato molto duttile in questo tempo, recependo grecismi ed ebraismi.
d)
Infine, la lingua sacra ha una struttura retorica tipica dell’oralità e
che allo stesso tempo conferisce maestà e bellezza: basta leggere una
qualsiasi orazione del Messale romano
per rendersi conto dell’elaborazione retorica, perfetta nella sua
sobrietà: chiasmi, iperbati, allitterazioni, equilibrio perfetto tra i
cola, rispetto delle clausole che danno un ritmo inconfondibile.
e)
C’è ancora un motivo evidente che fa del latino liturgico una lingua
sacra. I testi liturgici sono plasmati come un’eco ed un approfondimento
del testo sacro per antonomasia, la Bibbia. Per rivolgersi a Dio,
infatti, le parole più appropriate sono quelle che Dio stesso, con la
sua rivelazione, mette sulla bocca dei credenti e degli oranti. Ora, la
Chiesa Cattolica ha assunto per la sua vita, per la sua preghiera e per
la sua dottrina la Vulgata, ossia l’edizione latina della Bibbia, diffusa da Gerolamo nel IV secolo e poi rifatta dopo il Concilio di Trento.
3)
E veniamo così all’ultima parte di questa relazione. Stabilito che il
latino è un patrimonio immateriale dell’umanità e che, tra le sue
espressioni, vi sia il latino liturgico in quanto il latino è una lingua
sacra, vorrei affrontare una domanda che sicuramente è nata in ciascuna
di noi: non ha forse la Chiesa Cattolica abbandonato l’uso del latino
nella celebrazione della liturgia, con l’introduzione delle lingue
nazionali, seguita alla riforma liturgica postconciliare? Il problema è
complesso. Presento tre elementi che aiutano ad affrontare correttamente
tale problema.
Anzitutto, va ricordato che i Padri del Concilio
Vaticano II ammisero un uso limitato e ragionevole delle lingue
nazionali che avrebbero dovuto coesistere accanto al latino . I motivi per i quali questa raccomandazione non sia stata rispettata ma stravolta saranno chiariti dagli storici.
In secondo luogo,
tutte le editiones typicae
dei testi liturgici sono in latino e i testi in lingue nazionali sono
traduzioni dell’originale latino, operazione molto delicata perché è in
gioco la fede della Chiesa, al punto che la Santa Sede avoca a sé
il diritto/dovere di approvarle, prima di introdurle nella pratica. E
sugli infiniti problemi delle traduzioni, vorrei fare due esempi. Al
principio della Messa, sia nella forma ordinaria sia in quella
straordinaria, si recita il
Confiteor,
pur se con alcune non irrilevanti variazioni tra l’una e l’altra.
Questa bellissima preghiera si conclude con un appello del fedele alla
Chiesa celeste e a quella militante di pregare a suo favore per ottenere
il perdono dei peccati. In latino si dice:
Ideo precor … orare pro me ad Dominum Deum nostrum.
La traduzione in lingua italiana dice: "Supplico di pregare per me il
Signore Dio nostro", quella inglese “to pray for me to the Lord our
God”. Eppure, in quel
ad seguito
dall’accusativo non è contenuto solamente il significato della
direzione impressa alla preghiera, significato più comune nel tardo
latino.
Ad e l’accusativo, in dipendenza di un verbo che non indica movimento, come appunto
confiteor, significano anche e principalmente “alla presenza di”. Quando si recita il
Confiteor,
insomma, ci mettiamo dinanzi a Dio perché nella Messa siamo realmente
davanti a Lui, come peccatori, tutti quanti, e invochiamo il suo perdono
perché siamo al cospetto di Colui che per perdonarci ha subito la
Passione e la Morte: anche la posizione del Crocifisso ci aiuta ad
assumere questo orientamento interiore. Ancora più sorprendente la
traduzione in lingua italiana delle parole della consacrazione del
Calice.
ACCIPITE ET BIBITE EX EO OMNES: HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI NOVI ET AETERNI TESTAMENTI.
La traduzione del Messale italiano dice: “Questo è il sangue per la
nuova ed eterna alleanza”, un complemento di fine e non di
specificazione. La traduzione è assolutamente inadeguata: al posto di un
genitivo oggettivo-costitutivo, (questo è il sangue che “fa”, crea,
costituisce la nuova e definitiva alleanza) c’è un ben più debole
complemento “per la nuova ed eterna alleanza”. In questo punto, la
lex orandi non corrisponde più alla
lex credendi.
Infine,
il Magistero supremo della Chiesa non ha mai cessato di incoraggiare
l’uso della lingua latina anche nella liturgia rinnovata. In questo
senso, l’esempio e l’insegnamento del Papa emerito, Benedetto XVI, sono
stati luminosi. Tuttavia,
vorrei ora
proporre delle riflessioni su quella forma di celebrazione della Messa
in cui l’uso della lingua latina è rimasto intatto ed integrale, la
cosiddetta “forma straordinaria” del rito romano, secondo il Messale dell’anno 1962, che, con il Motu proprio
Summorum Pontificum,
è stato restituito alla Chiesa e che un numero di fedeli e di
sacerdoti, per quanto estremamente esiguo rispetto alla maggioranza, ha
adottato stabilmente .
La
Messa tridentina – e così possiamo chiamarla – accentua molto la
sacralità dell’azione perché è un atto di fede che potremmo così
sintetizzare: Dio è presente in modo realissimo attraverso la
consacrazione delle specie eucaristiche e nella Messa si rinnova in modo
incruento il sacrificio del Calvario. Di fronte ad un evento tanto
sublime, al sacerdote e ai fedeli viene chiesto di coltivare un
atteggiamento di intima e convinta adesione, di silenziosa adorazione,
di umile accoglienza, di preghiera raccolta. La lingua latina, in quanto
lingua sacra, si addice sommamente ad esprimere quest’atmosfera.
Christine Mohrmann, già citata, la grande storica del latino dei
cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di
“organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, ogni forma di credere
nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente,
conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel
culto, mentre solo un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di
essa. Del resto, quasi tutte le grandi religioni adottano una lingua
diversa da quella dell’uso quotidiano per gli atti di culto. Lo
ricordava anche il Cardinale Ranjith in un’intervista di qualche anno
fa: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo.
Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in
uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti
studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua
sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» .
In un convegno, tenutosi a Pavia poco più di un anno fa, don Marino
Neri, appassionato cultore della Messa tridentina, ha spiegato che il
Latino introduce meglio al mistero, al momento in cui l’Altro per
eccellenza si comunica sensibilmente a noi. L’alterità, espressa da
luoghi, gesti, abiti “altri”, passa anche attraverso il “principe” dei
segni, la parola, che non media solo significati destinati
all’intelletto, ma conduce l’astante al rapporto personale religioso,
che si nutre di segni. Si tratta né più né meno di un principio
formulato da San Tommaso d’Aquino, il teologo che dice le cose più
ragionevoli che io conosca: “Ciò che si trova nei sacramenti per
istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma
conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la
devozione e il rispetto in coloro che li ricevono”.
Alla
sacralità del rito tridentino, potentemente ed efficacemente
manifestata dall’uso del latino, lingua ieratica, si aggiungono altre
caratteristiche in armoniosa simbiosi e che rendono la forma
straordinaria del rito romano un’autentica esperienza mistica. Ne
ricordo velocemente tre, ben note a coloro che vi hanno partecipato
qualche volta o che abitualmente assistono alla Messa antica. Anzitutto,
l’orientamento
ad Deum,
favorito dalla posizione assunta dai fedeli e dai celebranti che,
spezzando il circolo un po’ autoreferenziale del guardarsi
reciprocamente, volgono lo sguardo verso il Crocifisso, maestoso e
semplice nel messaggio salvifico che trasmette: il Sangue di Cristo,
sparso cruentamente sul Calvario, viene incruentemente effuso
sull’Altare dove si rinnova il Santo Sacrificio. In secondo luogo, lo
spazio dato al silenzio che avvolge discretamente l’intero svolgimento
del rito, dalle apologie del sacerdote alla recitazione del
Canon Missae,
per dare risalto alla contemplazione e all’assimilazione intima del
significato dei gesti compiuti e delle parole pronunciate. Infine,
l’importanza della gestualità che, nella logica del simbolo, riassume
l’antropologia cristiana, invitando i fedeli ad essere frequentemente in
ginocchio per riconoscere la loro condizione creaturale di fronte al
Creatore che li ama e li salva, e che nessuna dimensione della vita
dell’uomo tralascia, neppure gli affetti diretti verso quell’Altare,
figura eloquente di Cristo, vittima, sacerdote ed altare, che
ripetutamente il sacerdote bacia delicatamente.
Concludo con un
esempio della bellezza del latino liturgico, porzione non indifferente
di questa lingua “patrimonio immateriale dell’umanità”. È una preghiera
che il sacerdote pronunzia sommessamente alla fine della Messa, prima di
impartire la benedizione finale, purtroppo scomparsa nella forma
ordinaria del rito romano. Essa recita in tal modo:
Placeat
tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meae: et praesta; ut
sacrificium, quod oculis tuae maiestatis indignus obtuli, tibi sit
acceptabile, mihique et omnibus, pro quibus illud obtuli, sit, te
miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
M. Politi, Liturgia. Perché Ratzinger recupera il 'sacro', in “La Repubblica”, 31 luglio 2008, p. 42.
Summa Theologiae III, 64, 2 (Ed. Leonina).