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Sunday, August 2, 2015

Il Latino liturgico, patrimonio immateriale dell'umanità

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Testo della conferenza di don Roberto Spataro sdb, alla Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) di Milano, 12 maggio 2014.

***

Illustri professori e studenti, cari amici,

nella relazione che sto per presentare, attenendomi al titolo che mi è stato affidato, svilupperò tre punti. Anzitutto, definirò il concetto di patrimonio immateriale e lo applicherò alla lingua latina; in secondo luogo, mostrerò alcune caratteristiche del latino liturgico; infine, presenterò la cosiddetta “Messa tridentina”, comunemente designata anche come “Messa in latino”, che valorizza moltissimo il latino liturgico.

1) Per definire il concetto di “patrimonio immateriale”, vorrei rifarmi ad un’iniziativa promossa circa due anni e mezzo fa da una benemerita istituzione culturale italiana, l’Accademia “Vivarium Novum”, che, con il sostegno di altri prestigiosi partner europei, ha raccolto moltissime adesioni perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite dichiari la lingua latina e la lingua greca antica “patrimonio culturale immateriale dell’umanità “. Nella petizione che è stata diffusa, era descritto, pur se con altre parole, come “patrimonio immateriale dell’umanità” un qualche bene spirituale intangibile capace di creare una sorta di comunione diacronica tra gli uomini che ne usufruiscono. Come tutti le ricchezze culturali, esprime sempre un’esperienza significativa dell’avventura umana sulla terra che possa toccare l’anima dell’uomo in quanto tale, senza esclusioni e senza barriere nel tempo e nello spazio.

Appartengono a questa categoria lingue, non mai e/o non più parlate da nessun popolo, che hanno svolto nella storia delle idee e della cultura un ruolo fondamentale. Gli esempi sono numerosi: il sanscrito, soprattutto in India, ha trasmesso dottrine e speculazioni filosofiche da epoche remotissime fino ai nostri giorni; l’arabo classico e il persiano medievale ci hanno consegnato le meditazioni dei mistici sufi e le discussioni dei pensatori che riflettevano con profondità sui loro testi sacri e sulle opere della filosofia greca; la lingua ebraica, di recente riportata in vita con la nascita dello Stato d’Israele, ha per quasi due millenni tramandato la sapienza religiosa di una comunità di credenti dispersa nell’orbe. Queste ed altre lingue, e le civiltà che esse esprimono, costituiscono un grande patrimonio, che va rispettato, apprezzato, tutelato. Se disperso e trascurato, tutti diventano più poveri culturalmente, il che equivale a dire, tutti diventano più poveri di umanità. (1)

È a tutti evidente che il concetto di “patrimonio immateriale”, così come descritto, si applichi alle lingue latina e greca. Chi potrà negare che anche e principalmente nelle civiltà greca e latina sussistano le radici storiche e il tesoro inesauribile della memoria comune dell’Europa?

Il latino è patrimonio immortale dell’umanità perché è la lingua di autori che definiamo “classici” in quanto, secondo una felice intuizione di Italo Calvino, ogni volta che entriamo in dialogo con loro, scopriamo sempre qualcosa di nuovo che si incide nella nostra anima (2). Sono classici perciò Virgilio, con la sua dolorosa meditazione delle umane vicende, Seneca che sosteneva che tutti gli uomini hanno la stessa dignità, Agostino che, nella sua sofferta e pur serena autobiografia, ha scoperto la psicologia del profondo. Non è necessario moltiplicare i nomi dei “classici” latini ed il loro imperituro messaggio. Vorrei, invece, ricordare che, dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuto nel V secolo in concomitanza con l’irruzione di nuovi popoli, la lingua latina diventò immortale, mai più destinata a perire. A partire dal V secolo comunità civili e politiche scelsero il latino per le conversazioni quotidiane, per l’allacciamento di relazioni, per la stesura degli atti burocratici, per la composizione di opere di letteratura, per la celebrazione della preghiera. In tal modo i popoli europei, dialogando tra loro con l’uso della medesima lingua, maturavano un unico e medesimo spirito. Scrissero in latino i monaci eruditi che, maestri alla corte palatina di Carlo Magno, coltivarono gli studi umanistici ed avviarono un rinascimento delle lettere e delle arti. Tra essi eccelle Alcuino. In latino composero le loro summae di teologia i pii dottori del Medioevo per mostrare il modo in cui gli uomini, con argomentazioni razionali, possono comprendere i misteri della fede cristiana. Ed il nostro pensiero va al più grande tra essi, Tommaso d’Aquino. In latino Dante Alighieri, come altri suoi contemporanei, trattò problemi di natura politica. In latino gli umanisti dei secoli XV e XVI sostennero la grandezza e la dignità dell’uomo, come Erasmo da Rotterdam, profeta della pace, o Thomas More martire della giustizia. Usarono il latino gli autori, come Francesco de Vittoria, il grande filosofo di Salamanca, che rivendicarono i diritti inviolabili delle popolazioni indigene contrastando l’avidità dei conquistadores. In latino approfondirono temi di matematica studiosi illustri, quale Giovanni Napier che nel XVI secolo scrisse un’opera intitolata “Mirifici logarithmorum canonis descriptio(3). Quanti capolavori di natura letteraria, filosofica, teologica, giuridica, scientifica, matematica, biologica sono stati composti in questa lingua fino al secolo XIX! E persino nell’ambito politico, il latino, era la lingua dei parlamenti, come quello croato e quello ungherese fino al secolo XIX, o la lingua della corrispondenza di uomini dotti, mercanti, esploratori, missionari: un enorme patrimonio, davvero universale nel tempo e nello spazio.

2) Negli ambiti in cui la lingua latina è stata usata eccelle senz’altro la liturgia della Chiesa Cattolica che ha quasi spontaneamente scelto la lingua di Roma per elevare la sua preghiera a Dio negli atti più solenni, i sacramenti, soprattutto la Santa Messa, e l’Ufficio divino. Tra le varie cause che hanno portato a questa felicissima simbiosi tra la preghiera ufficiale della Chiesa e l’uso del latino, vorrei ricordarne una: il latino è una lingua sacra. Gli argomenti che adduco per sostenere questa tesi sono cinque.

a) Anzitutto, le più remote testimonianze dell’uso letterario della lingua, rinviano ad un contesto rituale, gli antichissimi “carmina” perché le caratteristiche fonetiche del latino, con la sua alternanza di sillabe lunghe e brevi, con la sua sonorità robusta, ma mai sgraziata, di consonanti occlusive, ingentilita dalla frequenza di sibilanti e liquide, lo rende una lingua poetica e, dunque, la sottrae alla funzionalità della prosa, per immergerla nella sfera della bellezza, che è il mondo di Dio.

b) Inoltre, il latino è una lingua “sacra”, come ha notato Michael Lang sulla scorta delle osservazioni di Christine Mohrmann, perché è immutabile (4). Il latino, infatti, nelle sue strutture morfologico-sintattiche si è fissato una volta per sempre, come ricordavamo, intorno al V secolo d.C., conoscendo solo un graduale e fecondo arricchimento lessicale.

c) La lingua sacra, tra l’altro, è disponibile a recepire prestiti da altre lingue per esprimere realtà sacre, ed il latino liturgico si è mostrato molto duttile in questo tempo, recependo grecismi ed ebraismi.

d) Infine, la lingua sacra ha una struttura retorica tipica dell’oralità e che allo stesso tempo conferisce maestà e bellezza: basta leggere una qualsiasi orazione del Messale romano per rendersi conto dell’elaborazione retorica, perfetta nella sua sobrietà: chiasmi, iperbati, allitterazioni, equilibrio perfetto tra i cola, rispetto delle clausole che danno un ritmo inconfondibile.

e) C’è ancora un motivo evidente che fa del latino liturgico una lingua sacra. I testi liturgici sono plasmati come un’eco ed un approfondimento del testo sacro per antonomasia, la Bibbia. Per rivolgersi a Dio, infatti, le parole più appropriate sono quelle che Dio stesso, con la sua rivelazione, mette sulla bocca dei credenti e degli oranti. Ora, la Chiesa Cattolica ha assunto per la sua vita, per la sua preghiera e per la sua dottrina la Vulgata, ossia l’edizione latina della Bibbia, diffusa da Gerolamo nel IV secolo e poi rifatta dopo il Concilio di Trento.

3)
E veniamo così all’ultima parte di questa relazione. Stabilito che il latino è un patrimonio immateriale dell’umanità e che, tra le sue espressioni, vi sia il latino liturgico in quanto il latino è una lingua sacra, vorrei affrontare una domanda che sicuramente è nata in ciascuna di noi: non ha forse la Chiesa Cattolica abbandonato l’uso del latino nella celebrazione della liturgia, con l’introduzione delle lingue nazionali, seguita alla riforma liturgica postconciliare? Il problema è complesso. Presento tre elementi che aiutano ad affrontare correttamente tale problema.

Anzitutto, va ricordato che i Padri del Concilio Vaticano II ammisero un uso limitato e ragionevole delle lingue nazionali che avrebbero dovuto coesistere accanto al latino (5). I motivi per i quali questa raccomandazione non sia stata rispettata ma stravolta saranno chiariti dagli storici.

In secondo luogo, tutte le editiones typicae dei testi liturgici sono in latino e i testi in lingue nazionali sono traduzioni dell’originale latino, operazione molto delicata perché è in gioco la fede della Chiesa, al punto che la Santa Sede avoca a sé il diritto/dovere di approvarle, prima di introdurle nella pratica. E sugli infiniti problemi delle traduzioni, vorrei fare due esempi. Al principio della Messa, sia nella forma ordinaria sia in quella straordinaria, si recita il Confiteor, pur se con alcune non irrilevanti variazioni tra l’una e l’altra. Questa bellissima preghiera si conclude con un appello del fedele alla Chiesa celeste e a quella militante di pregare a suo favore per ottenere il perdono dei peccati. In latino si dice: Ideo precor … orare pro me ad Dominum Deum nostrum. La traduzione in lingua italiana dice: "Supplico di pregare per me il Signore Dio nostro", quella inglese “to pray for me to the Lord our God”. Eppure, in quel ad seguito dall’accusativo non è contenuto solamente il significato della direzione impressa alla preghiera, significato più comune nel tardo latino. Ad e l’accusativo, in dipendenza di un verbo che non indica movimento, come appunto confiteor, significano anche e principalmente “alla presenza di”. Quando si recita il Confiteor, insomma, ci mettiamo dinanzi a Dio perché nella Messa siamo realmente davanti a Lui, come peccatori, tutti quanti, e invochiamo il suo perdono perché siamo al cospetto di Colui che per perdonarci ha subito la Passione e la Morte: anche la posizione del Crocifisso ci aiuta ad assumere questo orientamento interiore. Ancora più sorprendente la traduzione in lingua italiana delle parole della consacrazione del Calice. ACCIPITE ET BIBITE EX EO OMNES: HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI NOVI ET AETERNI TESTAMENTI. La traduzione del Messale italiano dice: “Questo è il sangue per la nuova ed eterna alleanza”, un complemento di fine e non di specificazione. La traduzione è assolutamente inadeguata: al posto di un genitivo oggettivo-costitutivo, (questo è il sangue che “fa”, crea, costituisce la nuova e definitiva alleanza) c’è un ben più debole complemento “per la nuova ed eterna alleanza”. In questo punto, la lex orandi non corrisponde più alla lex credendi.

Infine, il Magistero supremo della Chiesa non ha mai cessato di incoraggiare l’uso della lingua latina anche nella liturgia rinnovata. In questo senso, l’esempio e l’insegnamento del Papa emerito, Benedetto XVI, sono stati luminosi. Tuttavia, vorrei ora proporre delle riflessioni su quella forma di celebrazione della Messa in cui l’uso della lingua latina è rimasto intatto ed integrale, la cosiddetta “forma straordinaria” del rito romano, secondo il Messale dell’anno 1962, che, con il Motu proprio Summorum Pontificum, è stato restituito alla Chiesa e che un numero di fedeli e di sacerdoti, per quanto estremamente esiguo rispetto alla maggioranza, ha adottato stabilmente (6).

La Messa tridentina – e così possiamo chiamarla – accentua molto la sacralità dell’azione perché è un atto di fede che potremmo così sintetizzare: Dio è presente in modo realissimo attraverso la consacrazione delle specie eucaristiche e nella Messa si rinnova in modo incruento il sacrificio del Calvario. Di fronte ad un evento tanto sublime, al sacerdote e ai fedeli viene chiesto di coltivare un atteggiamento di intima e convinta adesione, di silenziosa adorazione, di umile accoglienza, di preghiera raccolta. La lingua latina, in quanto lingua sacra, si addice sommamente ad esprimere quest’atmosfera. Christine Mohrmann, già citata, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre solo un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. Del resto, quasi tutte le grandi religioni adottano una lingua diversa da quella dell’uso quotidiano per gli atti di culto. Lo ricordava anche il Cardinale Ranjith in un’intervista di qualche anno fa: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (7). In un convegno, tenutosi a Pavia poco più di un anno fa, don Marino Neri, appassionato cultore della Messa tridentina, ha spiegato che il Latino introduce meglio al mistero, al momento in cui l’Altro per eccellenza si comunica sensibilmente a noi. L’alterità, espressa da luoghi, gesti, abiti “altri”, passa anche attraverso il “principe” dei segni, la parola, che non media solo significati destinati all’intelletto, ma conduce l’astante al rapporto personale religioso, che si nutre di segni. Si tratta né più né meno di un principio formulato da San Tommaso d’Aquino, il teologo che dice le cose più ragionevoli che io conosca: “Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono”. (8)

Alla sacralità del rito tridentino, potentemente ed efficacemente manifestata dall’uso del latino, lingua ieratica, si aggiungono altre caratteristiche in armoniosa simbiosi e che rendono la forma straordinaria del rito romano un’autentica esperienza mistica. Ne ricordo velocemente tre, ben note a coloro che vi hanno partecipato qualche volta o che abitualmente assistono alla Messa antica. Anzitutto, l’orientamento ad Deum, favorito dalla posizione assunta dai fedeli e dai celebranti che, spezzando il circolo un po’ autoreferenziale del guardarsi reciprocamente, volgono lo sguardo verso il Crocifisso, maestoso e semplice nel messaggio salvifico che trasmette: il Sangue di Cristo, sparso cruentamente sul Calvario, viene incruentemente effuso sull’Altare dove si rinnova il Santo Sacrificio. In secondo luogo, lo spazio dato al silenzio che avvolge discretamente l’intero svolgimento del rito, dalle apologie del sacerdote alla recitazione del Canon Missae, per dare risalto alla contemplazione e all’assimilazione intima del significato dei gesti compiuti e delle parole pronunciate. Infine, l’importanza della gestualità che, nella logica del simbolo, riassume l’antropologia cristiana, invitando i fedeli ad essere frequentemente in ginocchio per riconoscere la loro condizione creaturale di fronte al Creatore che li ama e li salva, e che nessuna dimensione della vita dell’uomo tralascia, neppure gli affetti diretti verso quell’Altare, figura eloquente di Cristo, vittima, sacerdote ed altare, che ripetutamente il sacerdote bacia delicatamente.

Concludo con un esempio della bellezza del latino liturgico, porzione non indifferente di questa lingua “patrimonio immateriale dell’umanità”. È una preghiera che il sacerdote pronunzia sommessamente alla fine della Messa, prima di impartire la benedizione finale, purtroppo scomparsa nella forma ordinaria del rito romano. Essa recita in tal modo:

Placeat tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meae: et praesta; ut sacrificium, quod oculis tuae maiestatis indignus obtuli, tibi sit acceptabile, mihique et omnibus, pro quibus illud obtuli, sit, te miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

In questa preghiera Cielo e terra si uniscono nelle parole del sacerdote, la Trinità invocata al principio della preghiera, i fedeli tutti per i quali il sacerdote prega e lavora. Si alternano il congiuntivo, placeat, e l’imperativo, praesta, che sono i modi verbali della preghiera cristiana: quando parliamo a Dio esprimiamo umilmente una speranza, ed ecco il congiuntivo, ma osiamo anche chiedere fiduciosi, nel nome del Figlio, ed ecco l’imperativo. Le richieste sono espresse ordinatamente: anzitutto la gloria di Dio ed ecco la proposizione ut sacrificium sit acceptabile, e poi la salvezza delle anime, sit propitiabile, la stessa disposizione dell’Oratio dominica, del Padre nostro. Le preghiere sono espresse in un elegante parallelismo, ma esso viene, per così dire, deviato da un ablativo assoluto, cioè da quella costruzione tipica della lingua latina, che esprime le circostanze che accompagnano il racconto di un fatto o l’enunciazione di un pensiero. Quell’ablativo assoluto, che esce dalla struttura parallela, si impone allora come una luce che illumina tutta la preghiera: te miserante, proprio le parole del motto scelto dal Papa Francesco. La misericordia delle Tre persone della Santissima Trinità, il messaggio imperituro del Vangelo che l’attuale Sommo Pontefice ci sta ricordando incessantemente e che la Messa tridentina, ridonataci da Benedictus Magnus, ci lascia alla conclusione di ogni sua celebrazione!

Roberto Spataro
Pontificium Institutum Altioris Latinitatis
Università Pontificia Salesiana


(2) Cf. I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano 1995.

(3) Cf. R. Spataro, Hortensius vel Sapientia veterum a Christifidelibus tradita, Grottaminarda (Av), 2014, p. 81.


(5) Cf. Sacrum Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Sacrosanctum Concilium, n. 36 §1, in Constitutiones, Decreta, Declarationes, cura et studio Secretariae Generalis Concilii Oecumenici Vaticani II, Typis Poliglottis Vaticanis, MCMLXVI, p. 22.
(7) M. Politi, Liturgia. Perché Ratzinger recupera il 'sacro', in “La Repubblica”, 31 luglio 2008, p. 42.

(8) Summa Theologiae III, 64, 2 (Ed. Leonina).

Saturday, February 16, 2013

Il Concilio Vaticano II - quello vero - secondo Benedetto XVI

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Benedetto XVI durante il discorso. Si nota, tra l'altro, Mons. Alfred Xuereb, secondo segretario del Papa 
(Foto: catholicnews.com)

Durante il discorso d'addio ai preti di Roma (14 febbraio 2013), Benedetto XVI ha spiegato quale sia il vero Concilio:

"Vorrei adesso aggiungere ancora un punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media.

"Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, ed era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa.

"Era un’ermeneutica politica. Per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i vescovi e poi, tramite la parola "popolo di Dio", il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del papa, poi trasferito al potere dei vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire.

"E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: la sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento, ma nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività.

"Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.

"Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata… E il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale.

"Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, cinquant'anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore. Nella certezza: vince il Signore!".

Thursday, January 24, 2013

A critical analysis of the Tridentine Mass by Fr Ratzinger

Way back in 1967, theologian Fr Joseph Ratzinger wrote about the Tridentine Mass. This was soon after the closing of Vatican II. Below is an excerpt in which Ratzinger analyses the Tridentine Mass as established by the Council of Trent:
Joseph Ratzinger in a photo from 1971
Fr Joseph Ratzinger in 1971

The [liturgical] additions of the late Middle Ages were eliminated, and at the same time severe measures were adopted to prevent a rebirth. .... At that time, the fate of the Western liturgy was linked to a set authority, which worked in a strictly bureaucratic way, lacking any historic vision and considering the problem of the liturgy from the sole viewpoint of rubrics and ceremonies, like a problem of etiquette in a saint's court, so to speak.

As a consequence of this link, there was a complete archeologisation of the liturgy, which from the state of a living history was changed into that of pure conservation and, therefore, condemned to an internal death. Liturgy became once and forever a closed construction, firmly petrified. The more it was concerned about the integrity of pre-existent formulas, the more it lost its connection to concrete devotions ....

In this situation, the baroque carved it [the liturgy] superimposing a people's para-liturgy over its true and proper archeologized liturgy. The solemn baroque mass, through the splendor of the orchestra's performance, became a kind of sacred opera, in which the songs of the priest had their role as did the alternating recitals. .... On the ordinary days that did not allow such a performance, devotions that followed the people's mentality were often added to the mass.

(Source: Ratzinger J., Problemi e risultati del Concilio Vaticano II, Brescia: Queriniana, 1967, pp. 25-27)

Saturday, January 12, 2013

Non ho mai smesso di celebrare con il rito tridentino

Il Cardinale Poggi, una vita intera al servizio della gloriosa Tradizione della Chiesa: “Non ho mai smesso di celebrare con il rito tridentino”
 
http://www.mzv.cz/public/a7/75/c5/426995_279794_kardinal_Spidlik_s_medaili.jpg
Cardinale Luigi Poggi (1917 - 2010)

di Bruno Volpe


CITTA’ DEL VATICANO - Ha 91 anni, ma conserva la lucidità e l’entusiasmo di un ragazzino. Il Cardinale Luigi Poggi, già Archivista e Bibliotecario della Santa Sede, è uno dei pochi porporati che, dopo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, ha continuato a celebrare la Santa Messa con il rito tridentino in latino di San Pio V.

Eminenza, ci consenta una provocazione amichevole: perchè non si è adeguato alla riforma?

“Scusi, ma perchè mi pone questa domanda? Io ho sempre celebrato secondo il Messale di San Pio V che, è bene ricordarlo, il Concilio Vaticano II non ha mai abrogato”.

Rimoduliamo il quesito: perchè ha scelto di continuare con il rito di San Pio V?

“Così va già meglio. Allora: nessuno, e sottolineo nessuno, è autorizzato a cancellare la tradizione della Chiesa, tantomeno il Concilio Vaticano II, cui va, sia ben chiaro, tutto il mio rispetto. Ma, lo sottolineo ancora una volta, quel Concilio non ha sostituito il rito tridentino ma ne ha semplicemente aggiunto un altro. Se poi alcuni Vescovi o ‘Pastori zelanti’, hanno pensato che il Novus Ordo abrogasse il Vetus Ordo, hanno sbagliato di grosso”.

Sappiamo che della Messa di San Pio V Le piacciono i silenzi, il guardare a Dio, alla Croce…

“Come potrebbe essere altrimenti? Molti sbagliano e analizzano il problema riducendolo alla posizione del celebrante. Da nessuna parte è scritto che il sacerdote debba rivolgersi ad Oriente, ma mi sembra comunque la posizione più corretta e teologicamente convincente. Il sacerdote non è il protagonista della Celebrazione Eucaristica, ma parla a nome di Cristo, quindi guarda alla Croce e al sole che sorge, cioè al Verbo”.

Introibo ad altare Dei…

“Bellissima formula, che dà pienamente la sensazione e l’idea di una processione, di un divenire, dell’indegnità dell’uomo ad accostarsi al Sacrificio Divino; ma mi piace sottolineare maggiormente il secondo passaggio…”.

Ci dica.

Qui laetificat juventutem meam. Non è un ritornello senza idee, ma testimonia la giovinezza di Dio e la sua immensa misericordia; la misericordia del Padre che rinnova nella fede i suoi figli donando la gioventù e la freschezza di chi crede. Ecco, il rito tridentino contempla un Dio giovane ed evidenzia la bellezza di una fede spontanea. Come dire, quella Messa contiene elementi purtroppo trascurati nella visione razionalista del Novus Ordo: la capacità di stupirsi, il mistero e la trascendenza”.

Qualche studioso, religioso e persino rabbino ha parlato di rito antisemita.

“Guardi, di inesattezze ne ho sentite molte, ma questa le supera davvero tutte. Il rito tridentino non vuole offendere i giudei, ma ne invoca semplicemente la conversione. Tanto più che, con estremo buon senso, il Papa Benedetto XVI ha rivisto la preghiera del Venerdì Santo, auspicando e ribadendo la richiesta di conversione degli ebrei. A tal proposito, mi permetto di affermare che ogni cristiano è chiamato a convertire chi non crede in Cristo. D’altro canto, che c’è di male?”.

Cardinale Poggi, intanto sembra sempre più vicina la pace ufficiale tra la Chiesa di Roma e i lefebvriani.

“Auguro vivamente che ciò possa accadere quanto prima: non ha senso vivere da separati”.

Eminenza, ma Lei a 91 anni si sente giovane?
 

“Certo. Con un Dio che ‘laetificat juventutem meam’ come non potrei…?”.

(Source: Petrus - 2008)

Friday, January 4, 2013

Le sofferenze di Paolo VI

http://pierostradella.it/vendite/papi/papa11.jpg«Soffre oggi la Chiesa? Figli, Figli carissimi! Sì, oggi la Chiesa è alla prova di grandi sofferenze! Ma come? Dopo il Concilio? Sì, dopo il Concilio!... Soffre per l'abbandono di tanti cattolici della fedeltà, che la tradizione secolare le meriterebbe... Soffre soprattutto per l'insorgenza inquieta, critica, indocile e demolitrice di tanti suoi figli, i prediletti - sacerdoti, maestri, laici, dedicati al servizio e alla testimonianza di Cristo vivente nella Chiesa viva -, contro la sua intima e indispensabile comunione, contro la sua istituzionale esistenza, contro la sua norma canonica, la sua tradizione, la sua interiore coesione; contro la sua autorità, insostituibile principio di verità, di unità, di carità; contro le sue stesse esigenze di santità e di sacrificio; soffre per la defezione e lo scandalo di certi ecclesiastici e religiosi, che crocifiggono oggi la Chiesa...»

Paolo VI 
2 aprile 1969

Saturday, May 26, 2012

Paolo VI e la lingua latina

Dalla Lettera Apostolica Sacrificium Laudis (15 agosto 1966), di Papa Paolo VI, uno dei papi del Concilio Vaticano II:

«Siamo venuti a conoscenza che nell'uffizio di Coro si vanno richiedendo le lingue volgari e si vuole ancora che il canto, cosiddetto gregoriano, si possa qua e là sostituire con le cantilene oggi alla moda; addirittura da alcuni si reclama che la stessa lingua latina sia abolita. Dobbiamo confessare che richieste di tal genere ci hanno gravemente turbato e non poco rattristato; e sorge il problema donde mai sia nata e perchè mai si sia diffusa questa mentalità e questa insofferenza prima sconosciuta... Le cose che abbiamo sopra denunciato accadono dopo che il Concilio Vaticano II ha espressamente e solennemente pronunciato, sopra questo argomento, la sua sentenza... e dopo che norme chiare e precise sono state emanate»

«si riconferma quello stesso precetto e se ne adduce nel medesimo tempo la ragione del vantaggio spirituale dei fedeli ... Né poi qui si tratta solamente della conservazione della lingua latina - lingua che, lungi dall'essere tenuta in poco conto, è certamente degna di essere vivamente difesa, essendo nella Chiesa Latina sorgente fecondissima di cristiana civiltà e ricchissimo tesoro di pietà ma si tratta anche di conservare intatti il decoro, la bellezza e l'originario vigore di tali preghiere e di tali canti... Desta dunque meraviglia il fatto che, scossa da improvviso turbamento, quella maniera di pregare sembri ad alcuni ormai trascurabile... Quale lingua, quale canto potrà sostituire le forme della cattolica pietà, di cui finora vi siete serviti? Gli uomini desiderosi di ascoltare le sacre preghiere continuerebbero a frequentare così numerosi le vostre chiese, quando non vi risuonasse più l'antica ed originaria loro lingua, congiunta con un canto pieno di gravità e di decoro?» 

«Quelle preghiere, piene di forza e di nobile maestà, continueranno ad attrarre a voi i giovani chiamati al servizio di Dio; il Coro - al contrario - a cui si togliesse quel linguaggio che supera il confine di ogni singola Nazione che si fa valere per la sua mirabile forza spirituale, il Coro a cui si togliesse quella melodia che sale dal più profondo dell'animo - il canto gregoriano, vogliamo dire - sarebbe simile a un cero spento, che più non illumina, più non attira a sè gli occhi e la mente degli uomini... Non vogliamo, per il bene che vi portiamo, accordarviciò che potrebbe essere origine forse di non poco danno a voi stessi, e sicuramente indebolire e intristire la Chiesa tutta di Dio. LasciateCi proteggere, anche vostro malgrado, il vostro patrimonio...»

Saturday, April 9, 2011

Ventidue Anni di "Ecclesia Dei". Un Bilancio


di Giancarlo Rocca


Il 2 luglio 1988 veniva istituita la pontificia commissione "Ecclesia Dei" con l'omonimo motu proprio di Giovanni Paolo II. L'obiettivo iniziale era quello di facilitare il rientro nella piena comunione della Chiesa di sacerdoti, seminaristi, religiosi, religiose, gruppi e singoli che, non condividendo la riforma liturgica del concilio Vaticano II, si erano legati alla fraternità sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre, ma non avevano condiviso il gesto, da lui compiuto nel 1988, di consacrare alcuni vescovi.


In seguito, la "Ecclesia Dei" ha ampliato le proprie competenze, ponendosi al servizio di tutti coloro che, anche senza legami con i gruppi di monsignor Lefebvre, desiderano conservare la liturgia latina anteriore nella celebrazione dei sacramenti, in particolar modo dell'eucarestia. In pratica, alla "Ecclesia Dei" è stato attribuito il compito di conservare e preservare il valore della liturgia latina della Chiesa fissata nella riforma del 1962 da Giovanni XXIII.


Il cammino percorso dalla "Ecclesia Dei" in questi quasi ventidue anni è stato notevole.


Nel 1988, anno della sua fondazione, ha concesso l'approvazione pontificia alla fraternità sacerdotale San Pietro e alla fraternità san Vincenzo Ferreri.


La prima era stata fondata subito dopo lo scisma del 1988 e aveva avuto come primo superiore don Joseph Bisig, già assistente generale della fraternità San Pio X con monsignor Lefebvre.


La seconda era nata nel 1979 per opera di padre Louis-Marie de Blignières, che aveva ritenuto la dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa contraria all'insegnamento tradizionale della Chiesa, e poi, dopo uno studio più accurato, si era convinto che il Vaticano II non rappresentava una rottura.


Sono seguite altre approvazioni pontificie di istituti:


– l'abbazia Santa Maddalena, fondata nel 1970 dal padre Gerardo Calvet, un monaco della congregazione benedettina sublacense (1989);


– l'abbazia Nostra Signora Annunciazione, con sede a Le Barroux, in Francia, fondata nel 1979 come ramo femminile dell'abbazia Santa Maddalena, fondata dal padre Calvet (1989);


– le madri della Santa Croce, con casa generalizia in Tanzania, fondate nel 1976 da suor Maria Stieren, delle benedettine missionarie di Tutzing, e da padre Cornelio Del Zotto, dei frati minori (1991);


– i servi di Gesù e Maria, fondati nel 1988 dal sacerdote ex gesuita padre Andrea Hönisch e attualmente con sede in Austria (1994);


– le canonichesse regolari della Madre di Dio, fondate in Francia nel 1971 e collegate con i canonici regolari della Madre di Dio (2000);


– i missionari della Santa Croce, con casa generalizia in Tanzania, fondati nel 1976, che costituiscono il parallelo maschile delle madri della Santa Croce (2004);


– l'istituto San Filippo Neri, fondato nel 2003 da don Gerald Goesche, con sede a Berlino, in Germania (2004);


– l'istituto del Buon Pastore, fondato nello stesso anno in Francia da don Philippe Laguérie insieme con alcuni sacerdoti usciti dalla fraternità sacerdotale san Pio X (2006);


– l'oasi di Gesù Sacerdote, fondata nel 1965 da padre Pedro Muñoz Iranzo e con sede ad Argentona, in Spagna (2007);


– l'istituto Cristo Re sommo sacerdote, fondato da monsignor Gilles Wach nel 1988, con sede a Sieci, Firenze (2008);


– le adoratrici del Cuore regale di Gesù Cristo sommo sacerdote, fondate nel 2000, con sede a Sieci, Firenze, che costituiscono il ramo femminile dell'istituto Cristo Re sommo sacerdote (2008).


Sono attualmente in corso le approvazioni di diritto diocesano dei figli del Santissimo Redentore, fondati nel 1988 e con sede in Scozia, e della fraternità di Cristo sacerdote e Santa Maria Regina, con sede a Toledo, in Spagna.


Molte altre sono le fondazioni – singoli monasteri e conventi di suore – che celebrano la liturgia secondo il rito del 1962 ed è impossibile elencarli. Qui però è necessario ricordare il cammino percorso dalla diocesi di Campos in Brasile, il cui vescovo, vicino alle posizioni di monsignor Lefebvre, nel 1981 ha rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età e in seguito ha fatto parte della società sacerdotale di San Giovanni Battista Maria Vianney. Nel 2002 la società è rientrata nella comunione della Chiesa ed è stata costituita come amministrazione apostolica personale – limitata al territorio della diocesi di Campos – per i fedeli legati alla tradizione tridentina. In questa nuova amministrazione apostolica nel 2008 ha ricevuto l'approvazione di diritto diocesano l'istituto del Cuore Immacolato di Maria, che era stato fondato nel 1976.Come si vede, sono già un discreto numero gli istituti che hanno ottenuto l'approvazione pontificia, con la possibilità di seguire il rito tradizionale nella Chiesa. Presi singolarmente, si tratta di piccoli istituti, attorno ai quali, però, ruota un certo numero di fedeli.


Il gruppo più numeroso sembra essere quello della fraternità sacerdotale di San Pietro, che conta una trentina di case negli Stati Uniti d'America, una ventina in Francia, poi alcune altre in Austria, Germania, Canada, Svizzera, Belgio. A Roma nel 2008 è stata affidata alla fraternità una parrocchia personale per i fedeli che preferiscono il rito di Pio V: come loro centro è stata designata la chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini. Gli altri istituti sono di entità molto minore, a eccezione dell'istituto Cristo Re sommo sacerdote, presente in una cinquantina di diocesi con circa 70 sacerdoti.


In ogni caso, è difficile quantificare il numero di coloro che in vario modo sono sottoposti alla "Ecclesia Dei". Si parla di circa 370 sacerdoti, 200 religiose, un centinaio di religiosi non sacerdoti, circa 300 seminaristi e alcune centinaia di migliaia di fedeli.


Come risulta da questi dati, la "Ecclesia Dei" è stata a volte molto rapida nel concedere l'approvazione pontificia a istituti che desideravano rientrare nella Chiesa. E questo modo di operare appare chiaramente se raffrontato con la prassi della congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che attende parecchi anni prima di concedere l'approvazione pontificia a un istituto.


Il modo con cui queste istituzioni sono state approvate è altrettanto significativo ed è chiaramente espresso nei documenti relativi.


Erigendo l'amministrazione apostolica personale San Giovanni Maria Vianney, nel 2002, la congregazione per i vescovi concedeva la facoltà di celebrare l'eucarestia, gli altri sacramenti e la liturgia delle ore secondo il rito codificato da Pio V e con gli adattamenti introdotti sino al 1963 col pontificato di Giovanni XXIII.


Approvando nel 2008 l'istituto Cristo Re sommo sacerdote, la "Ecclesia Dei" lo presentava come una società di preti che si proponevano di celebrare "decore ac sanctitate cultus liturgici secundum formam extraordinariam Ritus Romani".


E sempre nel 2008 la commissione concedeva all'abbazia trappista di Mariawald, in Germania, un ritorno completo alla liturgia in uso nell'ordine trappista sino al 1963-1964.


Il diverso regime appare ancor più evidente se si tiene conto che questi istituti, elencati nell'Annuario Pontificio, dipendono unicamente dalla "Ecclesia Dei", anche se per la loro erezione di diritto pontificio si richiede di sentire il prefetto della congregazione per gli istituti di vita consacrata e per le società di vita apostolica.


Due documenti di Benedetto XVI hanno precisato l'ambito di azione della "Ecclesia Dei" e la vita di coloro che si sentono legati all'antico rito della Chiesa.


Nel motu proprio "Summorum Pontificum", del 7 luglio 2007, il papa afferma che il messale di Paolo VI è espressione ordinaria della preghiera della Chiesa cattolica di rito latino, mentre quello edito da Giovanni XXIII ne è espressione straordinaria. Le due forme dell'unico rito latino, cioè, non sono più considerate l'una in sostituzione dell'altra. Di conseguenza, l'uso del messale romano nella edizione del 1962 viene liberalizzato e regolamentato secondo le disposizioni normative del "Summorum Pontificum". Tutti i sacerdoti che lo desiderano possono celebrare secondo l'antico rito senza bisogno di alcun permesso. E anche gli istituti religiosi possono celebrare seguendo il messale romano anteriore, con il consenso dei loro superiori maggiori se si tratta di una celebrazione abituale o permanente. L'effetto di queste misure, certamente voluto, è di non contrapporre il messale risalente a Pio V a quello di Paolo VI o viceversa – facendone un elemento di frizione – ma di considerarli due forme dell'unico rito.


Il secondo documento è la lettera apostolica motu proprio "Ecclesiae unitatem", del 2 luglio 2009, con la quale il pontefice ha collegato strettamente la "Ecclesia Dei" alla congregazione per la dottrina della fede. Questo aggiornamento della sua struttura è finalizzato ad adattare la pontificia commissione alla nuova situazione creatasi con la remissione della scomunica – avvenuta il 21 gennaio 2009 – ai quattro vescovi consacrati da monsignor Lefebvre. Poiché i problemi in vista della ricomposizione della divisione della fraternità sacerdotale San Pio X sono di natura essenzialmente dottrinale, Benedetto XVI ha deciso di ampliare le competenze della "Ecclesia Dei", subordinandola direttamente alla congregazione per la dottrina della fede.


(Da "L'Osservatore Romano" dell'11 maggio 2010).

Thursday, February 10, 2011

Un motu proprio per il culto divino


di Andrea Tornielli


Sarà pubblicato nelle prossime settimane un documento di Benedetto XVI che riorganizza le competenze della Congregazione del culto divino affidandole il compito di promuovere una liturgia più fedele alle intenzioni originarie del Concilio Vaticano II, con meno spazi per i cambiamenti arbitrari e per il recupero di una dimensione di maggiore sacralità.


Il documento, che avrà la forma di un motu proprio, è frutto di una lunga gestazione – lo hanno rivisto dal Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi e gli uffici della Segreteria di Stato – ed è motivato principalmente dal trasferimento della competenza sulle cause matrimoniali alla Rota Romana. Si tratta delle cause cosiddette del «rato ma non consumato», cioè riguardanti il matrimonio avvenuto in chiesa ma non compiutosi per la mancata unione carnale dei due sposi. Sono circa cinquecento casi all’anno, e interessano soprattutto alcuni Paesi asiatici dove ancora esistono i matrimoni combinati con ragazzine in età molto giovane, ma anche i Paesi occidentali per quei casi di impotenza psicologica a compiere l’atto coniugale.

Perdendo questa sezione, che passerà alla Rota, la Congregazione del culto divino di fatto non si occuperà più dei sacramenti e manterrà soltanto la competenza in materia liturgica. Secondo alcune autorevoli indiscrezioni un passaggio del motu proprio di Benedetto XVI potrebbe citare esplicitamente quel «nuovo movimento liturgico» del quale ha parlato in tempi recenti il cardinale Antonio Cañizares Llovera, intervenendo durante il concistoro dello scorso novembre.

Al Giornale, in un’intervista pubblicata alla vigilia dell’ultimo Natale, Cañizares aveva detto: «La riforma liturgica è stata realizzata con molta fretta. C’erano ottime intenzioni e il desiderio di applicare il Vaticano II. Ma c’è stata precipitazione… Il rinnovamento liturgico è stato visto come una ricerca di laboratorio, frutto dell’immaginazione e della creatività, la parola magica di allora».


Il cardinale, che non si era sbilanciato nel parlare di «riforma della riforma», aveva aggiunto: «Quello che vedo assolutamente necessario e urgente, secondo ciò che desidera il Papa, è dar vita a un nuovo, chiaro e vigoroso movimento liturgico in tutta la Chiesa», per porre fine a «deformazioni arbitrarie» e al processo di «secolarizzazione che purtroppo colpisce pure all’interno della Chiesa».

È noto come Ratzinger abbia voluto introdurre nelle liturgie papali gesti significativi ed esemplari: la croce al centro dell’altare, la comunione in ginocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio. Si sa quanto tenga alla bellezza nell’arte sacra e quando consideri importante promuovere l’adorazione eucaristica. La Congregazione del culto divino – che qualcuno vorrebbe anche ribattezzare della sacra liturgia o della divina liturgia – si dovrà quindi occupare di questo nuovo movimento liturgico, anche con l’inaugurazione di una nuova sezione del dicastero dedicata all’arte e alla musica sacra.

Sunday, August 8, 2010

Mons. Pozzo: La vera Chiesa - Che cosa ha detto il Concilio e che cosa gli fa dire l'"ideologia para-conciliare neomodernista"


Testo della conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei", fatta ai sacerdoti europei della Fraternità San Pietro il 2 luglio 2010 a Wigratzbad. La conferenza è molto importante per distinguere fra i testi del Concilio Ecumenico Vaticano II interpretati secondo la Tradizione, come chiede Benedetto XVI,e quella che mons. Pozzo chiama "l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso" "diffusa soprattutto dai gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e dai centri massmediatici del potere mondano secolaristico".
 
Aspetti della ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II
 
Premessa 
Se si considera la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II, si rendono subito visibili la grandezza e l’ampiezza dell’approfondimento del mistero della Chiesa e del suo rinnovamento interiore, ad opera dei Padri conciliari.
Se però si legge o si ascolta molto di ciò che è stato detto da certi teologi, alcuni famosi, altri che inseguono una teologia dilettantistica, o da una diffusa pubblicistica cattolica post conciliare, non si può non essere assaliti da una profonda tristezza e non si possono non nutrire serie preoccupazioni. E’ davvero difficile concepire un contrasto maggiore di quello esistente tra i documenti ufficiali del Concilio Vaticano II, del Magistero pontificio posteriore, degli interventi della Congregazione per la Dottrina della Fede da un parte, e, dall’altra parte, le tante idee o le affermazioni ambigue, discutibili e spesso contrarie alla retta dottrina cattolica, che si sono moltiplicate negli ambienti cattolici e in genere nell’opinione pubblica.
Quando si parla del Concilio Vaticano II e della sua recezione, il punto chiave di riferimento ormai deve essere uno solo, quello che lo stesso Magistero pontificio ha formulato in modo chiarissimo e inequivocabile. Nel Discorso del 22 dicembre alla Curia Romana Papa Benedetto XVI si è così espresso: “Emerge la domanda: perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile ? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente, ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare – aggiunge il Santo Padre –‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’ ‘ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del popolo di Dio in cammino” (cf. Benedetto XVI, Insegnamenti, vol. I, 2005, Ed. Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 1023 sg.).
Evidentemente, se il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità, ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento.
In questa esposizione mi propongo di sviluppare brevemente due aspetti particolari, allo scopo di mettere in luce i punti fermi per una interpretazione corretta della dottrina conciliare, a confronto con le deviazioni e gli equivoci provocati dall’ermeneutica della discontinuità:
I. L’unità e l’unicità della Chiesa cattolica.
II. La Chiesa cattolica e le religioni in rapporto alla salvezza.
 
Nella conclusione infine vorrei fare alcune considerazioni sulle cause dell’ermeneutica della discontinuità con la Tradizione, mettendo in risalto soprattutto la forma mentis che ne sta alla base.
I. L’unità e l’unicità della Chiesa cattolica.
 
1. Contro l’opinione, sostenuta da numerosi teologi, che il Vaticano II abbia introdotto cambiamenti radicali riguardo la comprensione della Chiesa, si deve constatare anzitutto che il Concilio rimane sul terreno della Tradizione per ciò che concerne la dottrina sulla Chiesa. Ciò tuttavia non esclude che il Concilio abbia prodotto nuovi orientamenti ed esplicitato alcuni determinati aspetti. La novità rispetto alle dichiarazioni precedenti il Concilio è già nel fatto che il rapporto della Chiesa cattolica verso le chiese ortodosse e le comunità evangeliche nate dalla Riforma luterana è trattato come tema a se stante e in modo formalmente positivo, mentre nell’Enciclica Mortalium animos di Pio XI (1928), ad esempio, lo scopo era quello di delimitare e distinguere nettamente la Chiesa cattolica dalle confessioni cristiane non cattoliche.
2. E tuttavia, in primo luogo, il Vaticano II insiste sulla posizione di unità e unicità della vera Chiesa, riferendosi alla Chiesa cattolica esistente: “E’ questa l’unica Chiesa di Cristo che nel simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica” (LG, 8). In secondo luogo, il Concilio risponde alla domanda su dove sia possibile trovare la vera Chiesa: “Questa Chiesa, costituita ed organizzata in questo mondo come società, sussiste nella Chiesa cattolica” (LG, 8). E per evitare ogni equivoco riguardo all’identificazione tra la vera Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica, si aggiunge che si tratta della Chiesa “governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui” (LG, 8). L’unica Chiesa di Cristo ha dunque nella Chiesa cattolica la sua realizzazione, la sua esistenza, la sua stabilità. Non c’è nessuna altra Chiesa di Cristo accanto alla Chiesa cattolica. Con ciò si afferma – almeno implicitamente - che la Chiesa di Gesù Cristo non è divisa in se stessa, neanche nella sua sostanza e che la sua unità indivisa non viene annullata dalle tante separazioni dei cristiani.
Tale dottrina sull’indivisibilità della Chiesa di Cristo, della sua identificazione sostanziale con la Chiesa cattolica, è ribadita nei Documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, Mysterium Ecclesiae (1973), Dominus Iesus, 16 e 17 (2000) e nei Responsa ad dubia su alcune questioni ecclesiologiche (2007).
L'espressione subsistit in di Lumen gentium 8 significa che la Chiesa di Cristo non si è smarrita nelle vicende della storia, ma continua ad esistere come un unico e indiviso soggetto nella Chiesa cattolica. La Chiesa di Cristo sussiste, si ritrova e si riconosce nella Chiesa cattolica. In questo senso, vi è piena continuità con la dottrina insegnata precedentemente dal Magistero (Leone XIII, Pio XI e Pio XII).
3. Con la formula “subsistit in” la dottrina del Concilio – conformemente alla Tradizione cattolica – voleva esattamente escludere qualsiasi forma di relativismo ecclesiologico. Nello stesso tempo la sostituzione del “subsistit in” con l’ “est” adoperato dall’Enciclica Mystici Corporis di Pio XII, intende affrontare il problema ecumenico in modo più diretto ed esplicito di quanto si era fatto in passato. Sebbene la Chiesa sia soltanto una e si trovi in un unico soggetto, esistono però al di fuori di questo soggetto elementi ecclesiali veri e reali, che, tuttavia, essendo propri della Chiesa cattolica, spingono all’unità cattolica.
Il merito del Concilio è d’una parte di aver espresso l’unicità, l’indivisibilità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica, e d’altra parte aver riconosciuto che anche nelle confessioni cristiane non cattoliche esistono doni ed elementi che hanno carattere ecclesiale, che giustificano e spingono ad operare per la restaurazione dell’unità di tutti i discepoli di Cristo. La pretesa di essere l’unica Chiesa di Cristo non può essere infatti interpretata al punto da non riconoscere la differenza essenziale tra i fedeli cristiani non cattolici e i non battezzati. Non è possibile infatti mettere sullo stesso piano quanto all’appartenenza alla Chiesa i cristiani non cattolici e coloro che non hanno ricevuto il battesimo. Il rapporto con la Chiesa cattolica da parte delle Chiese e Comunità ecclesiali cristiane non cattoliche non è tra il nulla e il tutto, ma è tra la parzialità della comunione e la pienezza della comunione.
4. Nel paradosso, per così dire, della differenza tra unicità della Chiesa cattolica ed esistenza di elementi realmente ecclesiali al di fuori di questo unico soggetto, si riflette la contradditorietà della divisione e del peccato. Ma tale divisione è qualcosa di totalmente diverso da quella visione relativistica che considera la divisione fra i cristiani non come una frattura dolorosa, ma come la manifestazione delle molteplici variazioni dottrinali di uno stesso tema, nel quale tutte le variazioni o divergenze sarebbero in qualche modo giustificate e dovrebbero fra loro riconoscersi e accettarsi come differenze o divergenze. L’idea che ne deriva è che l’ecumenismo dovrebbe consistere nel reciproco e rispettoso riconoscimento delle diversità, e il cristianesimo sarebbe alla fine l’insieme dei frammenti della realtà cristiana. Tale interpretazione del pensiero conciliare è espressione per l’appunto di quella discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica e rappresenta una profonda falsificazione del Concilio.
5. Per recuperare una autentica interpretazione del Concilio nella linea di un’evoluzione nella continuità sostanziale con la dottrina tradizionale della Chiesa, occorre sottolineare che gli elementi di «santificazione e di verità» che le altre Chiese e Comunità cristiane hanno in comune con la Chiesa cattolica, costituiscono insieme la base per la reciproca comunione ecclesiale e il fondamento che le caratterizza in modo vero, autentico e reale. Sarebbe perònecessario aggiungere, per completezza, che quanto esse hanno di proprio, non condiviso dalla Chiesa cattolica e che separa da essa queste comunità, le connota come non-Chiesa. Esse quindi sono «strumento di salvezza» (UR 3) per quella parte che hanno in comune con la Chiesa cattolica e i loro fedeli seguendo questa parte comune possono raggiungere la salvezza; per quella parte invece che è estranea o opposta alla Chiesa cattolica, esse non sono strumenti di salvezza (salvo che si tratti di coscienza invincibilmente erronea; in tal caso il loro errore non è imputabile, sebbene si debba qualificare la coscienza comunque come erronea) [cf. ad es. il fatto delle ordinazioni di donne al sacerdozio e all’episcopato, o l’ordinazioni di persone omosessuali in certe comunità anglicane o vetero-cattoliche].
6. Il Vaticano II insegna che tutti i battezzati in quanto tali sono incorporati a Cristo (UR 3), ma nello stesso tempo dichiara che si può parlare soltanto di una aliqua communio, etsi non perfecta, tra i credenti in Cristo e battezzati non cattolici da una parte e la Chiesa cattolica dall'altra (UR 3).
Il battesimo costituisce il vincolo sacramentale dell'unità dei credenti in Cristo. Tuttavia esso di per sé è soltanto l'inizio e l'esordio, per così dire, perché il battesimo tende intrinsecamente all'acquisto della intera vita in Cristo. Pertanto il battesimo è ordinato all'integra professione di fede, all'integrale comunione nell'istituzione della salvezza voluta da Cristo, che è la Chiesa, e infine all'integrale inserzione nella comunione eucaristica (UR 22). E' evidente quindi che l'apparte­nenza ecclesiale non si può mantenere piena, se la vita battesimale ha poi un seguito sacramentale e dottrinale oggettivamente difettoso e alterato. Una Chiesa è pienamente identificabile soltanto laddove si trovano riuniti gli elementi «sacri» necessari e irrinunciabili che la costituiscono come Chiesa: la successione apostolica (che implica la comunione con il Successore di Pietro), i sacramenti, la sacra Scrittura. Quando qualcuno di questi elementi manca o è difettosamente presente, la realtà ecclesiale risulta alterata in proporzione della manchevolezza riscontrata. In particolare, il termine «Chiesa» può essere legittimamente riferito alle Chiese orientali separate, mentre non lo può essere alle Comunità nate dalla Riforma, poiché in queste ultime l'assenza della successione apostolica, la perdita della maggior parte dei sacramenti, e specialmente dell'eucaristia, feriscono e indeboliscono una parte sostanziale della loro ecclesialità (cf. Dominus Iesus, 16 e 17).
7. La Chiesa cattolica ha in sé tutta la verità, poiché è il Corpo e la Sposa di Cristo. Tuttavia non la comprende tutta pienamente. Perciò ha bisogno di essere guidata dallo Spirito «alla verità tutta intera» (Gv 16,13). Altro è l'essere, altra la conoscenza piena dell'essere. Perciò la ricerca e la conoscenza progredisce e si sviluppa. Anche i membri della Chiesa cattolica non sempre vivono all'altezza della sua verità e dignità. Perciò la Chiesa cattolica può crescere nella comprensione della verità, nel senso di appropriarsi consapevolmente e riflessamente di ciò che ontologicamente ed esistenzialmente essa è già. In questo contesto si capisce l'utilità e la necessità del dialogo ecumenico, per recuperare ciò che eventualmente sia stato emarginato o trascurato in determinate epoche storiche e integrare nella sintesi dell'esistenza cristiana nozioni in parte dimenticate. Il dialogo con i non cattolici non è mai sterile né formale, nel presupposto però che la Chiesa è consapevole di avere nel suo Signore la pienezza della verità e dei mezzi salvifici.
Le suddette puntualizzazioni dottrinali consentono di sviluppare una teologia in piena continuità con la Tradizione e nello stesso tempo in linea con l’orientamento e l’approfondimento voluto dal Concilio Vaticano II e dal Magistero successivo fino ad oggi.
II. La Chiesa cattolica e le religioni in rapporto alla salvezza.
 
E’ normale che, in un mondo che cresce sempre più assieme fino a produrre un villaggio globale, anche le religioni si incontrino. Così oggi la coesistenza di religioni diverse caratterizza sempre più la quotidianità degli uomini. Ciò conduce non solo ad un avvicinamento esteriore di seguaci di religioni diverse, ma contribuisce ad uno sviluppo di interessi verso sistemi di religioni fino ad oggi sconosciute. Nell’Occidente prevale sempre più nella coscienza collettiva la tendenza dell’uomo moderno a coltivare la tolleranza e la liberalità, abbandonando sempre più la pretesa del Cristianesimo ad essere la “vera” religione. La cosiddetta pretesa di assolutezza del cristianesimo, tradotta nella formula tradizionale dell’unica Chiesa in cui soltanto vi è la salvezza, incontra oggi tra i cattolici e gli evangelici incomprensione e rifiuto. Alla formula classica “extra Ecclesiam nulla salus”, oggi si sostituisce spesso la formula “extra Ecclesiam multa salus”.
Le conseguenze di questo relativismo religioso non sono soltanto di ordine teoretico, ma hanno riflessi devastanti di ordine pastorale. E’ sempre più diffusa l’idea che la missione cristiana non deve più perseguire il fine della conversione delle genti al Cristianesimo, ma la missione si limita ad essere o pura testimonianza della propria fede o impegno nella solidarietà e nell’amore fraterno per la realizzazione della pace tra i popoli e della giustizia sociale.
In tale contesto si può osservare una deficienza fondamentale, cioè la perdita della questione della verità. Venendo a mancare la domanda sulla verità, cioè sulla vera religione, l’essenza della religione non si differenzia più dalla sua mistificazione, cioè la fede non riesce a distinguersi più dalla superstizione, l’esperienza autentica religiosa non si distingue più dall’illusione, la mistica non si distingue più dal falso misticismo. Infine, senza la pretesa di verità, anche l’apprezzamento per ciò che è giusto e valido nelle diverse religioni, diventa contraddittorio, perché manca il criterio di verità per constatare ciò che di vero e di buono c’è nelle religioni.
E’ quindi necessario e urgente oggi richiamare i punti fermi della dottrina cattolica sul rapporto tra Chiesa e religioni in ordine alla questione della verità e della salvezza, salvaguardando l’identità profonda della missione cristiana di evangelizzazione. Presentiamo una sintesi ordinata dell’insegnamento del Magistero al riguardo, che mette in luce come anche su questo aspetto esiste una continuità sostanziale del pensiero cattolico, pur nella ricchezza delle sottolineature e delle prospettive emergenti nel Concilio Vaticano II e nel più recente Magistero pontificio.
1. Il mandato missionario. Cristo ha inviato i suoi Apostoli perché “nel suo Nome” “siano predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24, 47). “Ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19). La missione di battezzare, dunque la missione sacramentale, è implicita nella missione di evangelizzare, poiché il sacramento è preparato dalla Parola di Dio e dalla fede, la quale è consenso a questa Parola (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1122).
2. Origine e scopo della missione cristiana. Il mandato missionario del Signore ha la sua ultima origine nell’amore eterno della Santissima Trinità e il fine ultimo della missione altro non è che di rendere partecipi gli uomini della comunione che esiste tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 850).
3. Salvezza e Verità. “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tim 2,4). Ciò significa che “Dio vuole la salvezza di tutti attraverso la conoscenza della verità. La salvezza si trova nella verità” (Dich. Dominus Iesus, 22). “La certezza della volontà salvifica universale di Dio non allenta, ma aumenta il dovere e l’urgenza dell’annuncio della salvezza e della conversione al Signore Gesù Cristo” (Ibid).
4. La vera religione. Il Concilio Vaticano II “professa che lo stesso Dio ha fatto conoscere al genere umano la via, attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e divenire beati. Questa unica vera religione crediamo che sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore ha affidato la missione di comunicarla a tutti gli uomini” ( Dich.Dignitatis humanae, 1).
5. Missione ad gentes e dialogo inter-religioso. Il dialogo inter-religioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. “Inteso come metodo e come mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non soltanto non si contrappone alla missio ad gentes, anzi ha speciali legami con essa e ne è un’espressione” (Lett. Enc. Redemptoris missio, 55). “Il dialogo non dispensa dall’evangelizzazione”(ibid.) né può sostituirla, ma accompagna la missio ad gentes (cf.Congregatio pro Doctrina Fidei, Dich. Dominus Iesus, 2 e Nota sull’evangelizzazione). “I credenti possono trarre profitto per se stessi da questo dialogo, imparando a conoscere meglio “tutto ciò che di verità e di grazia era già riscontrabile, per una presenza nascosta di Dio, in mezzo alle genti” (Dich. Ad gentes, 9). Se infatti essi annunciano la Buona Novella a coloro che la ignorano, è per consolidare, completare ed elevare la verità e il bene che Dio ha diffuso tra gli uomini e i popoli, e per purificarli dall’errore e dal male “per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la felicità dell’uomo” (Ibid.)” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 856).
6. Quanto al rapporto tra Cristianesimo, ebraismo e islam, il Concilio non afferma affatto la teoria, che purtroppo si sta diffondendo nella coscienza dei fedeli, secondo la quale le tre religioni monoteiste (ebraismo, islamismo e cristianesimo) siano come dei rami di una stessa rivelazione divina. La stima verso le religioni monoteiste non diminuisce e non limita in alcun modo il compito missionario della Chiesa: “la Chiesa annuncia ed è tenuta ad annunciare incessantemente che Cristo è la via, la verità e la vita (Gv 14,6) in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa” (Nostra aetate, 2).
7. Il legame della Chiesa con le altre religioni non cristiane. “La Chiesa riconosce nelle altre religioni la ricerca, ancora “nelle ombre e nelle immagini” (Cost. Dogm. Lumen gentium, 16) di “un Dio ignoto”, ma vicino, “poiché è Lui che dà a tutti la vita e respiro ad ogni cosa”. Pertanto la Chiesa considera “tutto ciò che di buono e di vero” si trova nelle religioni “come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo affinché abbia finalmente la vita” (Ibid.)” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 843). “Ma nel loro comportamento religioso, gli uomini mostrano anche limiti ed errori che sfigurano l’immagine di Dio” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 844): “molto spesso gli uomini, ingannati dal Maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore, oppure vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale “ (Cost. Dogm. Lumen gentium, 16).
8. La Chiesa sacramento universale della salvezza. La salvezza viene da Cristo per mezzo della Chiesa che è il suo Corpo (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 846). “Deve essere fermamente creduto che “la Chiesa pellegrina è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo è mediatore e la via della salvezza; egli si rende presente a noi nel suo Corpo che è la Chiesa”(Cost. Dogm. Lumen gentium, 14)” (Dominus Iesus, 20). La Chiesa è “sacramento universale di salvezza” (Cost. Dogm. Lumen gentium, 48) perché, sempre unita in modo misterioso e subordinata a Gesù Cristo Salvatore, suo Capo, nel disegno di Dio ha un’imprescindibile relazione con la salvezza di ogni uomo.
9. Valore e funzione delle religioni in ordine alla salvezza. “Secondo la dottrina cattolica si deve ritenereche “quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica (Lett. Enc. Redemptoris missio, 29)”. E’ dunque legittimo sostenere che lo Spirito Santo opera la salvezza nei non cristiani anche mediante quegli elementi di verità e di bontà presenti nelle varie religioni; ma è del tutto erroneo e contrario alla dottrina cattolica “ritenere queste religioni, considerate come tali, vie di salvezza, anche perché in esse sono presenti lacune, insufficienze ed errori, che riguardano le verità fondamentali su Dio, l’uomo e il mondo” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Notificazione a proposito del libro di J. Dupuis: “Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso”, 8).
Riassumendo, risulta chiaro che l’autentico annuncio della Chiesa in relazione alla sua pretesa di assolutezza non è sostanzialmente cambiato dopo l’insegnamento del Vaticano II. Esso esplicita alcuni motivi che completano tale insegnamento, evitando un contesto polemico e bellicoso, e riportando in equilibrio gli elementi dottrinali considerati nella loro integrità e totalità.
Conclusione
 
Che cosa sta all’origine dell’interpretazione della discontinuità o della rottura con la Tradizione?
Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Conciliofin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare. Perché tutte le conseguenze dell’ideologia paraconciliare venissero manifestate come evento storico, si dovette verificare la rivoluzione del ’68, che assume come principio la rottura con il passato e il mutamento radicale della storia. Nell’ideologia paraconciliare il ’68 significa una nuova figura di Chiesa in rottura con il passato, anche se le radici di questa rottura erano già da qualche tempo presenti in certi ambienti cattolici.
Tale quadro di interpretazione globale, che si sovrappone in modo estrinseco al Concilio, si può caratterizzare principalmente da questi tre fattori:
1) Il primo fattore è la rinuncia all’anathema, cioè alla netta contrapposizione tra ortodossia ed eresia.
In nome della cosiddetta “pastoralità” del Concilio, si fa passare l’idea che la Chiesa rinuncia alla condanna dell’errore, alla definizione dell’ortodossia in contrapposizione all’eresia. Si contrappone la condanna degli errori e l’anatema pronunciato dalla Chiesa in passato su tutto ciò che è incompatibile con la verità cristiana al carattere pastorale dell’insegnamento del Concilio, che ormai non intenderebbe più condannare o censurare, ma soltanto esortare, illustrare o testimoniare.
In realtà non c’è nessuna contraddizione tra la ferma condanna e confutazione degli errori in campo dottrinale e morale e l’atteggiamento di amore verso chi cade nell’errore e di rispetto della sua dignità personale. Anzi, proprio perché il cristiano ha un grande rispetto per la persona umana, si impegna oltre ogni limite per liberarla dall’errore e dalle false interpretazioni della realtà religiosa e morale.
L’adesione alla persona di Gesù Figlio di Dio, alla sua Parola e al suo mistero di salvezza, esige una risposta di fede semplice e chiara, quale è quella che si trova nei simboli della fede e nella regula fidei. La proclamazione della verità della fede implica sempre anche la confutazione dell’errore e la censura delle posizioni ambigue e pericolose che diffondono incertezza e confusione nei fedeli.
Sarebbe quindi sbagliato e infondato ritenere che dopo il Concilio Vaticano II il pronunciamento dogmatico e censorio del Magistero debba essere abbandonato o escluso, così come sarebbe altrettanto sbagliato ritenere che l’indole espositiva e pastorale dei Documenti del Concilio Vaticano II non implichi anche una dottrina che esige il livello di assenso da parte dei fedeli secondo il diverso grado di autorità delle dottrine proposte.
2) Il secondo fattore è la traduzione del pensiero cattolico nelle categorie della modernità. L’apertura della Chiesa alle istanze e alle esigenze poste dalla modernità (vedi Gaudium et Spes) viene interpretata dall’ideologia para-conciliare come necessità di una conciliazione tra Cristianesimo e pensiero filosofico e ideologico culturale moderno. Si tratta di un’operazione teologica e intellettuale che ripropone nella sostanza l’idea del modernismo, condannato all’inizio del Novecento da S. Pio X.
La teologia neo-modernistica e secolaristica ha cercato l’incontro con il mondo moderno proprio alla vigilia della dissoluzione del “moderno”. Con il crollo del cosiddetto “socialismo reale” nel 1989 sono crollati quei miti della modernità e della irreversibilità dell’emancipazione della storia che rappresentavano i postulati del sociologismo e del secolarismo. Al paradigma della modernità succede infatti oggi quello post-moderno del “caos” o della “complessità pluralistica”, il cui fondamento è il relativismo radicale. Nell’Omelia dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, prima di essere eletto Papa, in occasione della celebrazione liturgica “Pro eligendo pontifice”(18/04/2005), viene focalizzato il centro della questione: “Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero…La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via…Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.
Di fronte a questo processo occorre innanzitutto recuperare il senso metafisico della realtà (cf. Enciclica Fides et ratio di Papa Giovanni Paolo II) ed una visione dell’uomo e della società fondata su valori assoluti, metastorici e permanenti. Questa visione metafisica non può prescindere da una riflessione sul ruolo nella storia della Grazia, cioè del Soprannaturale, di cui la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, è depositaria. La riconquista del senso metafisico con il lumen rationis deve essere parallela a quella del senso soprannaturale con il lumen fidei.
Al contrario, l’ideologia para-conciliare ritiene che il messaggio cristiano deve essere secolarizzato e reinterpretato secondo le categorie della cultura moderna extra e anti ecclesiale, compromettendone l’integrità, magari col pretesto di un “opportuno adattamento” ai tempi. Il risultato è la secolarizzazione della religione e la mondanizzazione della fede.
Uno degli strumenti per mondanizzare la Religione è costituito dalla pretesa di modernizzarla adeguandola allo spirito moderno. Questa pretesa ha condotto il mondo cattolico ad impegnarsi in un “aggiornamento”, che costituiva in realtà in una progressiva e a volte inconsapevole omologazione della mentalità ecclesiale con il soggettivismo e il relativismo imperanti. Questo cedimento ha portato ad un disorientamento nei fedeli privandoli della certezza della fede e della speranza nella vita eterna, come fine prioritario dell'esistenza umana.
3) Il terzo fattore è l’interpretazione dell’aggiornamento voluto dal Concilio Vaticano II.
Con il termine “aggiornamento”, Papa Giovanni XXIII volle indicare il compito prioritario del Concilio Vaticano II. Questo termine nel pensiero del Papa e del Concilio non esprimeva però ciò che invece è accaduto in suo nome nella recezione ideologica del dopo-Concilio. “Aggiornamento” nel significato papale e conciliare voleva esprimere la intenzione pastorale della Chiesa di trovare i modi più adeguati e opportuni per condurre la coscienza civile del mondo attuale a riconoscere la verità perenne del messaggio salvifico di Cristo e della dottrina della Chiesa. Amore per la verità e zelo missionario per la salvezza degli uomini sono alla base i principi dell’azione di “aggiornamento” voluto e pensato dal Concilio Vaticano II e dal Magistero pontificio successivo.
Invece dall’ideologia para-conciliare, diffusa soprattutto dai gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e dai centri massmediatici del potere mondano secolaristico, il termine “aggiornamento” venne inteso e proposto come il rovesciamento della Chiesa di fronte al mondo moderno: dall’antagonismo alla recettività. La Modernità ideologica – che certamente non deve essere confusa con la legittima e positiva autonomia della scienza, della politica, delle arti, del progresso tecnico – si è posta come principio il rifiuto del Dio della Rivelazione cristiana e della Grazia. Essa non è quindi neutrale di fronte alla fede. Ciò che fece pensare ad una conciliazione della Chiesa con il mondo moderno portò così paradossalmente a dimenticare che lo spirito anticristiano del mondo continua ad operare nella storia e nella cultura. La situazione postconciliare venne così descritta già da Paolo VI nel 1972:
“Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio: c’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine. E’ entrato il dubbio nelle nostre coscienze ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempeste, di buio, di ricerca, di incertezza. Come è avvenuto questo? Vi confidiamo un nostro pensiero: c’è stato l’intervento di un potere avverso: il suo nome è il diavolo, questo misterioso essere a cui si fa allusione anche nella lettera di san Pietro” (Paolo VI, Insegnamenti, Ed. Vaticana,vol. X, 1972, p. 707).
Purtroppo gli effetti di quanto individuato da Paolo VI non sono scomparsi. Un pensiero estraneo è entrato nel mondo cattolico, gettando scompiglio, seducendo molti animi e disorientando i fedeli. Vi è uno “spirito di autodemolizione” che pervade il modernismo, che si è impadronito, tra l’altro, di gran parte della pubblicistica cattolica. Questo pensiero estraneo alla dottrina cattolica si può constatare ad esempio sotto due aspetti.
Un primo aspetto è la visione sociologica della fede, cioè un’interpretazione che assume il sociale come chiave di valutazione della religione, e che ha comportato una falsificazione del concetto di chiesa secondo un modello democratico. Se si osservano le discussioni attuali sulla disciplina, sul diritto, sul modo di celebrare la liturgia, non si può evitare di registrare che questa falsa comprensione della Chiesa è diventata diffusa tra i laici e teologi secondo lo slogan: Noi siamo il popolo, noi siamo Chiesa (Kirche von unten). Il Concilio in realtà non offre alcun fondamento a questa interpretazione, poiché l’immagine del popolo di Dio riferita alla Chiesa è sempre legata alla concezione della chiesa come Mistero, come comunità sacramentale del corpo di Cristo, composto da un popolo che ha un capo e da un organismo sacramentale composto da membra gerarchicamente ordinate. La Chiesa non può quindi diventare una democrazia, in cui il potere e la sovranità derivano dal popolo, poiché la Chiesa è una realtà che proviene da Dio ed è fondata da Gesù Cristo. Essa è intermediaria della vita divina, della salvezza e della verità, e dipende dalla sovranità di Dio, che una sovranità di grazia e di amore. La Chiesa è allo stesso tempo dono di grazia e struttura istituzionale, perché così ha voluto il suo Fondatore: chiamando gli Apostoli, “Gesù ne istituì dodici” (Mc 3,13).
Un secondo aspetto, su cui attiro la vostra attenzione, è l’ideologia del dialogo. Secondo il Concilio e la Lettera Enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam, il dialogo è un importante e irrinunciabile mezzo per il colloquio della Chiesa con gli uomini del proprio tempo. Ma l’ideologia paraconciliare trasforma il dialogo da strumento a scopo e fine primario dell’azione pastorale della Chiesa, svuotando sempre più di senso e oscurando l’urgenza e l’appello alla conversione a Cristo e all’appartenenza alla Sua Chiesa.
Contro tali deviazioni, occorre ritrovare e recuperare il fondamento spirituale e culturale della civiltà cristiana, cioè la fede in Dio, trascendente e creatore, provvidente e giudice, il cui Figlio Unigenito si è incarnato, è morto e risuscitato per la redenzione del mondo e ha effuso la grazia dello Spirito Santo per la remissione dei peccati e per rendere gli uomini partecipi della natura divina. La Chiesa, Corpo di Cristo, istituzione divino-umana, è il sacramento universale della salvezza e l’unità degli uomini, di cui essa è segno e strumento, è nel senso di unire gli uomini a Cristo mediante il suo Corpo, che è la Chiesa.
L’unità di tutto il genere umano, di cui parla LG, 1, non deve essere intesa quindi nel senso di raggiungere la concordia o la riunificazione delle varie idee o religioni o valori in un “regno comune o convergente”, ma essa si ottiene riconducendo tutti all’unica Verità, di cui la Chiesa cattolica è depositaria per affidamento di Dio stesso. Nessuna armonizzazione delle dottrine “varie e peregrine”, ma annuncio integro del patrimonio della verità cristiana, nel rispetto della libertà di coscienza, e valorizzando i raggi di verità sparsi nell’universo delle tradizioni culturali e delle religioni del mondo, opponendosi nello stesso tempo alle visioni che non coincidono e non sono compatibili con la Verità, che è Dio rivelato in Cristo.
Concludo ritornando alle categorie interpretative suggerite da Papa Benedetto nel Discorso alla Curia Romana, citato all’inizio. Esse non fanno riferimento al consueto e obsoleto schema ternario: conservatori, progressisti, moderati, ma si appoggiano su un binario squisitamente teologico: due ermeneutiche, quella della rottura e quella della riforma nella continuità. Occorre imboccare quest’ultimo indirizzo nell’affrontare i punti controversi, liberando, per così dire, il Concilio dal para-concilio che si è mescolato ad esso, e conservando il principio dell’integrità della dottrina cattolica e della piena fedeltà al deposito della fede trasmesso dalla Tradizione e interpretato dal Magistero della Chiesa.