Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI – Parte III
di Cristina Siccardi
Dopo aver esaminato le valutazioni di ordine dottrinale e pastorale, che hanno indotto il santo Padre a promulgare la Lettera Apostolica, motu proprio data, Summorum Pontificum, può essere interessante esaminarne il testo.
La parte introduttiva, che precede il contenuto immediatamente giuridico e vincolante, si apre con il ribadire l’eternità, per il passato come per il futuro, del principio, secondo il quale «ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede»1. Il termine “concordare” deve essere inteso in un significato molto simile a quello che ha in campo musicale. Come l’armonia è data da note diverse che cooperano e non da un unica nota ripetuta, così la liturgia della Chiesa è sempre stata rappresentata da riti diversi che, con sensibilità diverse e con diversi accenti esprimevano, però, un’unica fede, con l’unità che promana dall’adesione a Cristo, quale la Sua mistica Sposa ce lo ripresenta, mediante l’Eucaristia, e ce lo annuncia da duemila anni.
Su questa premessa, Benedetto XVI innesta una rapidissima disamina della storia liturgica della Chiesa latina. Più che un’analisi tecnica dell’evoluzioni della liturgia, si tratta di una messa a fuoco dell’idem sentire (comunanza di sentimenti), che ha caratterizzato tutti i grandi Papi riformatori in questo ambito, da san Gregorio Magno a Giovanni XXIII. Tra tutti si staglia la figura di san Pio V, «il quale sorretto da grande zelo pastorale, a seguito dell’esortazione del Concilio di Trento, rinnovò tutto il culto della Chiesa, curò l’edizione dei libri liturgici, emendati e “rinnovati secondo la norma dei Padri” e li diede in uso alla Chiesa latina.
[…] Fu questo il medesimo obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici nel corso dei secoli seguenti assicurando l’aggiornamento o definendo i riti e i libri liturgici, e poi, all’inizio di questo secolo, intraprendendo una riforma generale»2.
Il fine che ha sempre guidato tutti questi grandi Papi riformatori è stato il desiderio di preservare la continuità spirituale della preghiera della Chiesa. Ogni mutamento, ogni aggiornamento altro non era, in realtà, che l’adeguamento ritenuto necessario alla perpetuazione dell’eterno adorare Dio della Sua Chiesa.
Anche il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica di Paolo VI viene letta in questa chiave, sottintendendo, in maniera esplicita, quanto l’allora teologo Joseph Ratzinger aveva già scritto in più occasioni, vale a dire che il cosiddetto “spirito del Concilio”, cioè il tentativo di distruggere ogni eternità ed ogni stabilità spirituale all’interno della Chiesa, non era e non è contenuto né nel Vaticano II, né, tantomeno, nella riforma montiniana: sono gli abusi di una parte minoritaria del clero che hanno lasciato intendere che esistesse una contrapposizione tra la Chiesa conciliare e la Chiesa che l’aveva preceduta.
Il documento papale passa, poi, ad esaminare il periodo seguito alla riforma e, dalle poche parole con cui viene affrescato, s’intende chiaramente la partecipazione del Pontefice al dolore ed allo smarrimento che l’applicazione della riforma suddetta, spesso infedele ed ispirata ad attese rivoluzionarie non sue proprie, ha ingenerato in moltissimi fedeli. Chiaro è anche il partecipativo affetto con cui Papa Ratzinger parla di coloro che «aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti riforme liturgiche».
In questo quadro, viene sottolineata l’azione regolatrice e riformatrice del pontificato di Giovanni Paolo II, prima con lo speciale indulto Quattuor abhinc annos del 1984, con cui la Congregazione per il Culto Divino, «concesse la facoltà di usare il Messale Romano edito dal B.Giovanni XXIII nell’anno 1962», poi, «con la Lettera Apostolica “Ecclesia Dei”, data in forma di Motu proprio», che «esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero».
Dopo questa importante premessa, il Motu Proprio entra nel vivo della sua parte normativa.
L’art. 1 chiarisce che la Messa nuova rimane la Lex orandi ordinaria, mentre la cosiddetta Messa tridentina acquisisce la valenza di Lex orandi straordinaria, formalmente non solo lecita, ma esplicitamente riconosciuta dalla Chiesa, contro ogni interpretazione abrogazionista: nulla di ciò che la Chiesa ha considerato sacro per secoli può divenire proibito o dannoso o, peggio, malvagio!
Nell’art. 2 è stabilito che ogni sacerdote abbia la facoltà di celebrare la Messa «senza il popolo» nella forma che predilige e che «non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario», vale a dire del suo Vescovo. A tale Messa «possono essere ammessi – osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà» (art. 4).
All’art. 3 è stabilito che «le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica» possono celebrare la santa Messa nella forma che ritengono opportuna, purché rispettino le loro gerarchie interne.
All’art. 5, forse il più innovativo di tutto il Motu proprio, è stabilito che «nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco» è obbligato ad accogliere le loro richieste per la celebrazione secondo il “rito tridentino”, tanto nei giorni feriali, che nelle domeniche e nelle festività. Il parroco è, altresì, tenuto a permettere ai sacerdoti ed ai fedeli che lo richiedano «le celebrazioni in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, per esempio pellegrinaggi».
«Se un gruppo di fedeli laici […] non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregate di esaudire il loro desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia “Ecclesia Dei”» (art.7).
Anche tutti gli altri sacramenti possono essere celebrati secondo l’antico rito, secondo il prudente apprezzamento del sacerdote o del Vescovo cui competono (art. 9).
L’art. 10, inoltre prevede la possibilità, per il Vescovo, di erigere parrocchie personali per coloro che desiderano vivere la propria vita cristiana alla luce dell’antico rito, qualora lo ritenga opportuno.
Questo documento si presenta come innovativo sotto vari aspetti: la forma è assolutamente scarna; vi si esalta la libertà del singolo fedele; e, infine si ribadisce la centralità del primato petrino.
Il testo è decisamente breve, non esiste una casistica minuta ma, al contrario,m è articolato per principi generali ed astratti, denotando un introiettamento dei principi giuridici più moderni.
L’assenza di norme minute, inoltre, denota, già nella forma, una grande fiducia nell’autodeterminazione del fedele.
Questa impostazione formale trova un fortissimo riscontro nei contenuti, con la rigida tutela dei diritti del singolo Christifidelis, tramite il diretto rapporto tra questi e le autorità centrali vaticane in modo speciale la Commissione Ecclesia Dei.
La forzata armonizzazione del potere di regolamentazione della vita liturgica in capo ai Vescovi con le direttive papali rappresenta la più esplicita riaffermazione del primato petrino, sopra e oltre ogni interpretazione estensiva della collegialità dalla celebrazione del Concilio Vaticano II.
Questo Motu proprio, primo atto giuridico del pontificato di Benedetto XVI è stato presentato da molte parti come un ritorno, quasi irrazionale, ad un passato , privo di ogni ragion d’essere. Esso, invece, rappresenta la dimostrazione pratica di come , attraverso la riscoperta e la valorizzazione di tutti gli strumenti più tradizionali del culto cattolico,di fatto si riaffermi , in forme sempre nuove, il servizio di tutta la Chiesa al singolo fedele ed al suo cammino verso la Salvezza. Come Cristo è morto in Croce per espiare i peccati di ciascuno di noi, così il suo Corpo Mistico aiuta, con l’insegnamento, con la correzione e con la promozione della responsabile libertà personale, oltre che, ovviamente, attraverso i sacramenti, ciascuno di noi a giungere all’abbraccio con il Padre, che come nei confronti del Figliol prodigo, ci attende, per una eternità di divina gioia.