Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI - Parte I
di Cristina Siccardi
Una volta placate le più accese polemiche, che hanno preceduto ed immediatamente seguito la pubblicazione della Lettera Apostolica, motu proprio data, Summorum Pontificum di Benedetto XVI, possiamo tornare a ragionare di liturgia e valutare la grandissima portata che tale atto giuridico riveste in tutta la vita della Chiesa e come esso si inscriva nella concezione della Chiesa di questo Papa, costituendone, anzi, una pietra miliare.
di Cristina Siccardi
Una volta placate le più accese polemiche, che hanno preceduto ed immediatamente seguito la pubblicazione della Lettera Apostolica, motu proprio data, Summorum Pontificum di Benedetto XVI, possiamo tornare a ragionare di liturgia e valutare la grandissima portata che tale atto giuridico riveste in tutta la vita della Chiesa e come esso si inscriva nella concezione della Chiesa di questo Papa, costituendone, anzi, una pietra miliare.
Da sempre la Chiesa ha considerato la Liturgia, detta Lex orandi, vale a dire Legge del pregare, come inscindibile dalla Fede, detta Lex credendi, cioè Legge del credere, tanto da ritenere la prima come specchio della seconda e sua propagatrice nel cuore dei cristiani. Non è, quindi, possibile alterare la Liturgia, senza alterare il contenuto della Fede, che essa rappresenta ed insegna. Ma, allo stesso tempo, la Liturgia, otre ad essere espressione dell’offrire «alla Divina Maestà un culto degno» (Motu proprio Summorum Pontificum), è, come abbiamo detto, educazione del cuore dei fedeli e, dunque, deve essere da loro percepita come strumento atto ad elevare la loro anima a Dio. Risulta, per conseguenza, ovvio che anche la sclerotizzazioni della Liturgia in formule immutabili sia, di fatto, una indebita e, per di più, incontrollata variazione della Lex credendi, poiché le parole che avevano un significato in una data epoca, con il trascorrere del tempo, ne vengono ad assumere un altro, tendono a perdere ricchezza e coloriture o, al contrario, ad assumere accezioni nuove. Ecco che la Chiesa, tenendo sempre presente l’effetto che la Liturgia ha sul fedele, effetto non solo razionale, ma anche spirituale, emotivo e psicologico, ha sempre aggiornato, ma mai stravolto, questa che è il mezzo principe della catechesi.
È per questo motivo che gli aggiornamenti apportati alla Liturgia sono sempre stati molto prudenti e, per quanto possibile, hanno sempre mantenuto in vita le precedenti versioni, salvo, ovviamente, intervenire quando fosse stata violata o, anche solo, messa in dubbio l’ortodossia della Fede. Esempio emblematico è il Messale di San Pio V (1570), che rendeva ufficiale per tutto l’Orbe cattolico l’allora Messale romano, ma permetteva l’uso di tutti i Messali che avessero un’antichità dimostrata di almeno duecento anni; e ciò in ossequio al principio che, in quanto tale antichità assicurava la mancanza in essi di infiltrazioni ereticali (pre-protestanti e protestanti), non era opportuno proibire l’uso di una Liturgia che, pienamente corretta sul piano della Fede, ancora rappresentava un efficace mezzo di elevazione per molte persone. Tanto come dire che l’unità della Fede e la comunione dei credenti era assicurata più dalla comunione dei riti che dall’imposizione di un rito uguale per tutti.
Unico caso, nella bimillenaria storia della Chiesa, in cui le regolamentazioni della Liturgia precedente furono così stringenti da far pensare ad una vera e propria proibizione, fu la riforma del 1970. L’impressione generale fu di una rottura con il passato, quasi di una rivoluzione; idea questa sostenuta da tutta una chiassosa minoranza, che, oltre tutto, invece di applicare la riforma stessa ne prendeva spunto per “ardite”, quando non blasfeme, sperimentazioni liturgiche. I sentimenti di Joseh Ratzinger, allora neo professore ordinario di Dogmatica e storia dei dogmi all'Università di Ratisbona furono, come racconta egli stesso, di profondo disagio. «Il secondo grande evento all'inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, pero, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C'è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il concilio di Trento, fu di altra natura: l'irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di "riforme" liturgiche. Non c'erano semplicemente una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l'una accanto all'altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire. In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa liturgica unitaria e dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima. Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro. Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati. Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia "fatta", che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di " donato ", ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna " comunità " voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita. Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita "etsi Deus non daretur": come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l'unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov'è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, ma, in quanto unità, ha origine per la fede dal Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II» (JOSEPH RATZINGER, La mia vita: ricordi, 1927-1977, Cinisello Balsamo: San Paolo, 1997, pp. 110-113).
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